Il potere nelle relazioni assume significati diversi e ognuno può interpretarlo a modo suo a seconda del contesto in cui è inserito. In ogni relazione esistono dei giochi di potere, alcuni velati, altri decisamente marcati, che dirigono le scelte e le azioni e suscitano determinate risposte emotive.
Il potere nelle relazioni lavorative
Il potere nelle relazioni lavorative rappresenta qualcosa di importante sia per i capi che per i dipendenti, anche se la valenza che assume per gli uni e per gli altri è differente. Il capo può usare il potere per imporre un ordine, anche ricorrendo a intimidazioni e manipolazioni, percependosi come colui che ha il coltello dalla parte del manico e dunque incontestabile; d’altra parte il dipendente non può che piegarsi al volere del superiore e si trova così a lavorare in un contesto caratterizzato da continua tensione, paura delle eventuali ripercussioni a seguito di un errore, sentendosi sempre giudicato per ciò che fa o non fa.
Se, in un contesto di questo tipo, l’obiettivo viene raggiunto, il “come” viene raggiunto va in secondo piano. Ma non sarebbe possibile un altro modo per arrivaci cosicché il clima lavorativo risulti migliore e più disteso? Assolutamente sì e dipende dallo stile che il capo assume e, quindi, da come esercita il potere. Un capo può infatti essere autoritario, democratico o permissivo.
Il capo con stile autoritario ha il potere di decidere, pianificare cosa fare e come farlo e stabilire i tempi entro cui farlo: il rispetto di ciò che impartisce è dettato dalla coercizione, quindi attraverso un sistema di punizioni e sanzioni, non esprime fiducia nei membri del gruppo e di conseguenza genera scarsa motivazione, aggressività e competizione. Nonostante la rigidità dell’approccio bisogna ammettere che i risultati vengono aggiunti, anche se si genera una forte dipendenza nei suoi confronti.
Il capo con stile democratico rende i membri del gruppo attori attivi nelle scelte e nelle decisioni che deve pendere, anche se è lui ad avere il potere sull’ultima parola, generando in loro maggior motivazione, confronto e la determinazione di un luogo di lavoro più disteso, in cui gli obiettivi vengono raggiunti con più serenità . In questi termini il capo assume il ruolo di leader, ossia, attraverso la relazione che crea con i membri del gruppo, riesce a far emergere le risorse individuali valorizzandole, stabilendo un rapporto di stima e fornendo ai membri lo stimolo a fare sempre meglio anche in sua assenza.
Infine, il capo con stile permissivo ripone nelle mani dei membri del gruppo modalità e decisioni e solo se sollecitato prende posizione; i risultati di questa tipologia di gestione del gruppo sono scarsi e il clima che genera questa assenza di potere è caotico.
Ovviamente ogni contesto è caratterizzato da persone più o meno responsabili, motivate e diligenti, perciò lo stile da applicare, soprattutto in funzione degli obiettivi da raggiungere, è sicuramente determinato anche da questi elementi.
Il potere in terapia
Anche nella pratica clinica si ha a che fare col potere nelle relazioni tra terapeuta e paziente: fino a qualche decennio fa i terapeuti, e in alcuni approcci la sua equipe, venivano identificati come coloro che avevano la soluzione in tasca e che sapessero sempre cosa fosse meglio per il paziente. Il terapeuta, quindi, occupava una posizione di superiorità nella relazione col paziente e la influenzava. Oggi questa visione si è un po’ modificata, spostando l’attenzione su una relazione più simmetrica di collaborazione per il raggiungimento del benessere del paziente, anche grazie ad un dialogo più aperto, a un gioco a “carte scoperte”, privo per lo più di prescrizioni, e risulta essere più coerente con il contesto terapeutico, che si caratterizza per le dimensioni di accoglienza, ascolto e assenza di giudizio.
Come allora, in terapia, dare una connotazione positiva a questo concetto che per lo più viene inteso negativamente? Attraverso l’empowerment del paziente, inteso come percorso di crescita personale, di consapevolezza rispetto alle proprie scelte, alle proprie azioni e alle proprie decisioni. In questo senso il potere ha un significato positivo e costruttivo per il paziente, è congruo con gli obiettivi della pratica terapeutica e rende la relazione tra terapeuta e paziente autenticamente paritaria.
In questa dimensione il paziente apprende che i suoi vincoli possono trasformarsi in risorse e che la sofferenza può diventare uno stimolo a trovare la felicità.
Esistono tre livelli di empowerment: individuale, organizzativo e di comunità. Il primo riguarda il passaggio da uno stato di passività e sfiducia nell’affrontare le difficoltà ad uno di maggior fiducia nelle proprie capacità e aumentata autostima; il secondo rispecchia le relazioni tra membri, focalizzandosi sulla presenza di regole, di una coscienza critica della realtà organizzativa e di una partecipazione attiva a questa ( e si riallaccia a quanto detto nella prima parte di questo articolo); infine il terzo riguarda l’azione collettiva al miglioramento della qualità della vita, ossia la partecipazione attiva dei singoli membri della comunità ad esperienze significative, aumentando così le proprie risorse e competenze.
Quindi il concetto di empowerment agisce sia a livello personale che interpersonale: se siamo in grado di affrontare attivamente le situazioni che incontriamo, aumenteremo il nostro bagaglio di risorse e competenze per poterle gestire al meglio.